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STORIE MOTIVANTI
In Mental training per la corsa di Jeff Galloway troviamo numerose storie di sportivi da cui prendere spunto per la motivazione personale. Eccone alcune raccontate qui di seguito.
Billy Mills
Billy Mills, la mia più grande fonte di ispirazione, è nato nella riserva indiana di Pine Ridge, nel Dakota del Sud. Da ragazzo fu selezionato per entrare in un convitto, dove scoprì di correre più forte dei suoi compagni su lunghe distanze. Una volta capito che la corsa avrebbe potuto aprirgli la strada del successo, lavorò molto duramente e vinse una borsa di studio per l’Università del Kansas.
Billy aveva uno spirito positivo e si immaginava di diventare uno dei migliori maratoneti della NCAA23, ma questo non accadde. Era convinto di ottenere i suoi risultati migliori sulle lunghe distanze e decise di puntare sui 10.000 metri. Tuttavia, il suo allenatore voleva che corresse su brevi distanze, partecipando a molte gare. L’allenamento che seguiva non lo preparava in modo adeguato ad affrontare una maratona da 10 chilometri e nei 4 anni di università non riuscì a raggiungere i risultati che si era prefissato.
Nel 1961 i programmi di corsa per i post-universitari erano pochi, ma Billy riuscì comunque a trovarne uno, quello della marina militare. Dopo aver seguito il programma di addestramento, fu assegnato alla squadra di Quantico, in Virginia, e decise di provare a qualificarsi per le Olimpiadi sui 10 chilometri. Anche se non riuscì nel suo intento, sapeva che sarebbe riuscito a migliorare e a qualificarsi. I miglioramenti sarebbero arrivati lentamente.
Un compagno di corsa di Billy dei tempi del college fece ritorno in patria (Australia) dopo la laurea e si allenò con l’allora detentore del record mondiale sui 10 chilometri, Ron Clark. Ogni settimana, per circa 3 anni, Billy riceveva il suo programma di allenamento con i suggerimenti di Ron Clark: li provava, ma non otteneva quasi mai dei risultati. Tuttavia, alla fine del duro allenamento si immaginò che Clark fosse davanti a lui, quindi fece uno scatto finale, immaginando di superarlo, tagliare il traguardo e diventare il nuovo campione olimpico. Quasi ogni giorno, per tre anni, inscenò questa fantasia.
Nel 1963, mi recai a New York con alcuni amici per vedere i campionati nazionali di corsa campestre e lì contattai un ex studente della mia università, la Wesleyan University, che era a capo della squadra della marina militare. Quando scoprì che potevo essere interessato a fare domanda nel giro di pochi anni e che ero interessato alla 10 chilometri, mi fece conoscere Billy.
Mi piacque fin da subito. Non lo capii al tempo, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che mi colpì; in seguito mi resi conto che si trattava di un senso di fiducia in se stesso che non avevo mai incontrato in vita mia. Si pensava che si sarebbe classificato in venticinquesima posizione, ma, senza un’ombra di spavalderia, mi disse che sarebbe arrivato tra i primi e così fece.
Seguii la storia di Billy nella rivista Track & Field News, dove ho letto dei suoi miglioramenti, della qualificazione per le selezioni olimpiche e, infine, dell’inaspettato ingresso nella squadra olimpica per la specialità dei 10 chilometri e la maratona. La sua storia ebbe un forte impatto su di me: se Billy era riuscito a uscire dall’oscurità e a entrare nella squadra olimpica, forse c’era speranza anche per me.
Billy, in quel momento, non era il miglior corridore americano nei 10 chilometri (che era invece Gerry Lindgren) e non si era piazzato molto bene tra i partecipanti alla 10 chilometri alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, ma in qualche modo sentiva di poter vincere comunque. Non c’era alcun giro di prova, solo una finale con più di 60 atleti che correvano per 25 volte intorno alla pista.
L’eccitazione e la concentrazione spinsero Mills ad accelerare il ritmo e a metà gara, scoprì di aver corso solo un secondo più lentamente del suo tempo migliore sui 5 chilometri. Si sentiva in sovraccarico e temeva di aver consumato le proprie risorse. Cercava un posto dove accasciarsi, ma appena prima di uscire dalla pista guardò tra gli spalti e incrociò lo sguardo di una persona: sua moglie Pat.
Non poteva arrendersi con lei che lo guardava e credeva nel suo sogno; quindi, liberato dalla pressione di vincere a tutti i costi, decise di finire la gara. Fu superato da diversi corridori e poi da un gruppo di circa quattro persone. Capì subito di dover seguire il gruppetto e così fece: Ron Clark era tra loro.
Oggi Billy ammette di non ricordare molto di quegli ultimi quattro giri. Seguiva l’istinto, cercando di mettere un piede davanti all’altro e sperando di non cadere. Il gruppo superava tutti gli altri corridori, uno dopo l’altro. L’ultimo giro si stava avvicinando. Billy era in corsia 2, Ron Clark nella 1. Stavano per doppiare un corridore e Clark diede un colpetto sul braccio di Billy per farlo spostare in modo che entrambi potessero superare l’atleta, ma Billy era così preso dalla gara che non si accorse del gesto, quindi Clark lo spinse nella corsia 4 e passò in testa.
Il terzo membro del gruppo, il tunisino Mohammed Gamudi, era dietro di loro, vide lo scontro e seguì Clark. Le sue braccia oscillavano in modo irregolare mentre superava Mills e diedero una forte gomitata al suo braccio, colpendolo in un nervo. Il dolore fu talmente intenso da fare rinsavire Billy e la mente subconscia inviò un messaggio primitivo che aveva introiettato quando era piccolo: «Quando qualcuno ti colpisce, restituiscigli il colpo». Tuttavia, le cellule muscolari della contrazione lenta erano terminate e non poteva rispondere. I due corridori in testa si allontanarono da Billy e lo distanziarono di circa 30 metri, mentre lui prendeva la curva e osservava il traguardo a soli 100 metri di distanza.
Billy stava vivendo la situazione che si era ripetuto nella mente ogni giorno per tre anni. Senza pensare, fece quello che aveva programmato e, dato che si era esercitato con gli sprint alla fine dei suoi duri allenamenti, aveva allenato le fibre muscolari della contrazione veloce a rispondere.
Mills staccò Gamudi e Clark, tagliò il traguardo e divenne campione olimpico, con un sorpasso inaspettato tra i più significativi della storia della 10 km olimpica.
Correre contro il cancro
«Se dovessi scegliere tra la mia vita prima del cancro, quando ero triste, sovrappeso, priva di motivazione e una pantofolaia insoddisfatta e la mia vita attuale con il cancro, la risposta sarebbe semplice. Ora mi sento energica, felice, motivata e amo la vita ogni giorno.» (Lee Kilpack)
Nel 1996, a Lee Kilpack fu diagnosticato un cancro al seno con un coinvolgimento linfonodale. Iniziò una cura fatta di chirurgia, chemio e radiazioni. Lee non aveva mai fatto attività fisica e la diagnosi la scioccò; la cura mise alla prova corpo, spirito e la sua forza di volontà.
Nel 2000 la situazione non era ancora migliorata e si sentiva male la maggior parte del tempo. Poi, una mattina, si svegliò con il desiderio di iniziare a prendersi cura del proprio corpo. Quel giorno assunse un personal trainer. Nel 2001 camminava già ogni giorno e più tardi quell’anno inserì un po’ di corsa nelle camminate. Nel 2002, Lee camminò per 60 chilometri in 3 giorni in occasione di una camminata di beneficienza contro il cancro al seno e raccolse 3.000 dollari per la causa.
Il duro allenamento e il completamento di un evento così faticoso abbassarono notevolmente la motivazione, allungando i tempi di recupero da infortuni e dolore. Lee, però, continuò a lottare e alla fine iniziò a correre regolarmente nel dicembre 2003. Dopo il Capodanno del 2004, stabilì un obiettivo ancora più grande: finire una maratona a novembre. Il programma di allenamento prescelto era troppo difficile e a settembre si infortunò, ma decise di non mollare.
A inizio 2005, il medico consentì a Lee di ricominciare a correre. Dopo aver preso parte al ritiro da me organizzato presso la spiaggia di Blue Mountain in Florida, adottò il mio programma di allenamento. Ci consultavamo via mail sui suoi progressi e spesso trovavo difficile trattenere il suo trasporto ed entusiasmo.
L’allenamento per la maratona della marina militare si è rivelò più arduo per lei che per la maggior parte degli atleti perché si trasferì sulla costa del Golfo per fare la volontaria e aiutare negli interventi di soccorso dopo l’uragano Katrina, distruggendosi nella corsa dopo giornate estenuanti. Oggi, Lee si dedica anche all’escursionismo, al ciclismo e al kayak; nei giorni “liberi” non corre.
Si sottopone regolarmente a controlli per i marcatori tumorali. Anche se dai test risulta al di fuori della norma, il suo medico non riscontra alcuna minaccia imminente e la supporta nella sua attività di corsa.
«Non so cosa il futuro abbia in riserbo per me. Se è una metastasi, va bene. Ho avuto una vita meravigliosa. Il mio stato di salute e la mia felicità non sono mai stati migliori di così. Quello che il mio oncologo non capisce è l’efficacia esplosiva che può avere la combinazione di endorfine e vitalità».
Maratoneta dopo gli 80 anni
Mavis Lindgren è stata una bambina e un’adulta malata a cui era stato sconsigliato di fare attività fisica. All’età di quasi sessant’anni era quasi morta di infezione polmonare. Durante la fase di guarigione, il suo nuovo medico le spiegò in maniera sconvolgente che avrebbe dovuto camminare con il marito e le consigliò di aumentare sempre di più la distanza coperta.
Incredibilmente, Mavis provò soddisfazione nel sentire il proprio corpo animarsi aumentando la resistenza. All’età di sessant’anni, si diede alla corsa con suo marito Carl e lo superò rapidamente. Dagli ottanta ai novant’anni stabilì nuovi record per la propria fascia di età, senza aver preso neanche un raffreddore dall’inizio della sua carriera sportiva.
All’età di circa 85 anni, durante la maratona di Portland, nell’Oregon, scivolò su un bicchiere nell’area ristoro del ventesimo miglio. Lo staff la aiutò a rialzarsi e provò a prestarle soccorso, ma lei lo rifiutò, dicendo che era una ferita superficiale. Dopo aver concluso la gara, tuttavia, andò a farsi curare e scoprì che aveva corso con un braccio rotto.
Dave Wottle: mai mollare!
Dato che Dave era molto magro e fragile, il medico gli consigliò di fare attività fisica, in modo particolare di correre. Quando era in pista si sentiva a casa, ma come molti corridori di fondo e mezzofondo, doveva lavorare duramente per vedere qualche progresso.
Alla Bowling Green State University, migliorò notevolmente ogni anno e raggiunse il top delle classifiche della NCAA. Il suo massimo lo raggiunse durante le selezioni statunitensi per le Olimpiadi del 1972.
Mentre tutti i giornalisti si aspettavano che la leggenda della corsa Jim Ryun vincesse le selezioni americane nei 1500 metri, Dave si portò a casa la vittoria facilmente e non ebbe problemi a vincere anche negli 800 metri. Durante un allenamento la settimana dopo le selezioni, Dave si fece male al ginocchio. Tre settimane dopo, quando ci presentammo per il tour olimpico, Dave era ancora infortunato e non era riuscito ad allenarsi.
I coach volevano mandarlo a casa e prendere un corridore più in forma, ma Dave rifiutò. Riluttanti, i coach decisero allora di appoggiare la sua decisione e, lavorando con i preparatori atletici e il team medico, Dave riuscì a correre e gradualmente riguadagnò una parte del condizionamento perso.
All’inizio della gara degli 800 metri a Monaco, Dave era in fondo al gruppo. Lottò per farsi spazio mentre percorreva l’ultimo giro, superando un corridore dopo l’altro. Al traguardo, riuscì ad arrivare terzo e fu l’ultimo a riuscire a qualificarsi per il round seguente.
Per problemi di condizionamento, Dave corse in modo simile le altre due manches di qualificazione, riuscendo a fatica a qualificarsi per le finali.
Nella finale, i concorrenti si raggrupparono, correndo per l’oro. Sfortunatamente, Dave non riusciva a tenersi al passo ed era rimasto indietro di circa 30 metri a metà percorso. Molti atleti si sarebbero ritirati, ma Dave puntò sul penultimo concorrente e lo raggiunse mentre percorrevano l’ultima curva.
Due corridori si scontrarono e Dave guizzò tra di loro, superando altri tre e poi oltrepassò un altro gruppetto. Mentre si avvicinava al tratto finale i più forti erano tutti in fila, ma all’ultimo minuto si divisero e Dave si buttò in picchiata, tagliò il traguardo e vinse la medaglia d’oro.
I telecronisti rimasero affascinati dal suo presunto sprint finale, ma in realtà non c’era stata alcuna accelerazione dell’ultimo momento. Come previsto dal suo programma, Dave aveva suddiviso la distanza totale in segmenti di 200 metri e aveva percorso ogni segmento a una velocità più o meno identica. Era consapevole delle proprie potenzialità ed era rimasto fedele al proprio programma.
In un qualsiasi momento, secondo la logica Dave avrebbe dovuto rinunciare al proprio posto e lasciar correre qualcun altro, ma alla fine vinse perché non aveva mollato.