- Silver-Fagan Alex
- AA.VV.
- Agostino Samuel
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- Antonucci Lauren A.
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- Brown Jason
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- Zanon Daniela
L'IMPORTANZA DELLA FORZA NEOMUSCOLARE
Il manuale Allenare le capacità motorie residue di Massimiliano Gollin inizia delineando il modello anatomico del corpo umano, per poi sviluppare tante altre argomentazioni tecniche, tra cui in particolare la forza neuromuscolare. Analizziamola insieme.
Il movimento umano si attua tramite l’applicazione di una forza muscolare contro
una resistenza inamovibile, in movimento o dal mantenimento di un carico, in un determinato ROM articolare senza che quest’ultimo si modifichi. Uno stato organico ottimale è il risultato della complessa interazione di numerosi fattori: muscolo-articolari, percettivo-cinetici e psicologici.
La forza neuromuscolare è la capacità neuromuscolare dell’individuo di vincere una resistenza esterna o di opporsi ad essa, ed è considerata la madre di tutte le capacità motorie, essendo la base del movimento dell’essere umano dalla nascita fino al decesso.
La forza dinamica è prodotta dall’applicazione di una forza muscolare contro una resistenza da vincere in movimento, modalità che modifica il ROM articolare sia in regime concentrico, vincendo la forza di gravità, sia in regime eccentrico, resistendo ad essa.
L’allenamento della forza e la plasticità neuromuscolare che ne consegue, svolgono un’importante funzione di prevenzione e stabilizzazione dell’apparato muscolo-articolare e diventano il presupposto per una maggiore capacità di tolleranza della fatica organica. Il livello dello sviluppo della forza neuromuscolare deve essere monitorato tramite test di valutazione funzionale specifici e pertinenti alle caratteristiche dell’individuo, tenendo presente due elementi fondamentali:
- L’aspetto bioenergetico, ovvero come viene utilizzata e riformata l’energia.
- L’aspetto biomeccanico, ovvero quali sono e come sono
i principali muscoli che vengono utilizzati.
LA CONTRAZIONE MUSCOLARE E LE SUE CARATTERISTICHE NEURO-FISIOLOGICHE
La coordinazione delle unità motorie
L’ottimo sincronismo delle unità motorie di un determinato gruppo muscolare è definito coordinazione intramuscolare, mentre la coordinazione sinergica di differenti gruppi muscolari che partecipano alla realizzazione di un movimento prende il nome di coordinazione intermuscolare. Qualsiasi protocollo di esercizi che debba essere assimilato, escludendo quello che viene chiamato “effetto apprendimento” che spesso può inficiare lo sviluppo della forza muscolare, deve necessariamente passare prima dallo sviluppo della coordinazione intermuscolare e solo successivamente accedere all’utilizzo di esercizi più impegnativi che orientano allo sviluppo della coordinazione intramuscolare.
LE FUNZIONI DELL’APPARATO MUSCOLO-SCHELETRICO APPLICATE ALLA FORZA
L’apparato muscolo-scheletrico svolge alcune funzioni fondamentali per il nostro
organismo, tra le quali ricordiamo le più importanti:
- Il corretto mantenimento della postura
- La determinazione del movimento del corpo umano
- La stabilizzazione delle articolazioni dello scheletro
- La copertura delle strutture ossee e degli organi interni
I tessuti muscolari si dividono in due strutture principali: il tessuto muscolare liscio e il tessuto muscolare striato:
- Il tessuto muscolare liscio (o involontario) è il tessuto presente negli organi interni. I muscoli scheletrici, i quali sono formati da particolari cellule di forma allungata dette fibre muscolari avvolte da un tessuto connettivo denominato endomisio, si raggruppano in fasci circoscritti da una membrana connettivale denominata perimisio. L’insieme dei fasci avvolti da un altro tessuto connettivo chiamato epimisio forma il muscolo nella sua totalità.
- Il tessuto muscolare striato (o volontario) si contrae sotto il controllo cosciente del sistema nervoso centrale (SNC) tramite l’energia derivata dall’ATP (adenosintrifosfato). Il tessuto muscolare striato cardiaco, ad esempio, è il tessuto che caratterizza il cuore ed è capace di contrarsi per tutta la vita liberamente, a prescindere dalla volontà dell’individuo.
All’interno della cellula muscolare individuiamo le miofibrille, formate da più unità contrattili di base chiamate sarcomeri, i quali sono composti da filamenti proteici di actina (filamenti sottili) e miosina (filamenti spessi). Alle estremità delle miofibrille i diversi tessuti connettivi si fondono dando origine ai tendini, meno elastici del tessuto muscolare, che si inseriscono nel tessuto osseo.
Per realizzare il movimento è necessario che il SNC invii un impulso elettrico attraverso i motoneuroni, specifici conduttori che permettono di compiere la contrazione muscolare. Il motoneurone insieme alle fibre da lui innervate, compone l’unità motoria, che si avvale della “legge del tutto o del nulla”. Quando il SNC invia il segnale per la contrazione muscolare, le fibre si contraggono tutte contemporaneamente, oppure nessuna di esse si contrae.
La forza muscolare è generata sia tramite la sincronia che l’asincronia delle unità motorie: il primo processo prevede che le unità motorie di un determinato gruppo muscolare si attivino simultaneamente nel maggior numero possibile, e questo si verifica quando il carico esterno da spostare è elevato, cioè maggiore del 70%.
D’altra parte, l’asincronia si esplica quando gli sforzi sono prolungati nel tempo e l’espressione della forza non può essere elevata, arrivando a circa il 40-60%. Prendiamo come esempio un maratoneta. Le unità motorie degli arti inferiori lavorano in modo asincrono, cioè durante il lavoro fisico, le unità motorie affaticate si alternano con le altre in efficienza, e così via per tutta la durata dell’esercizio. All’osservazione esterna, qualsiasi sia la modalità di attivazione delle unità motorie, esse si reclutano insieme, dando origine a un movimento fluido e armonico senza soluzione di continuità.
Le fibre muscolari
Il muscolo scheletrico è costituito da fasci di fibre avvolte da una banda di tessuto connettivo e posizionate parallelamente le une con le altre. Ogni fibra è una cellula allungata costituita da una membrana cellulare detta sarcolemma, che racchiude il citoplasma chiamato sarcoplasma. La forza muscolare dipende essenzialmente da tre concause: l’area della sua sezione trasversa; la sua capacità di reclutamento sincrono o asincrono; la tipologia delle fibre muscolari. Queste ultime, distribuite diversamente nei singoli individui, si dividono in due fondamentali categorie:
- Le fibre lente o rosse, perché riccamente vascolarizzate, dette anche ST (slow twitch fibers) o di tipo I. Hanno un diametro piccolo, sono sottili e ricche di capillari e mitocondri. Possedendo un’importante capacità ossidativa ed essendo specializzate nel lavoro di lunga durata, sono adatte a un lavoro di tipo aerobico, con grande resistenza alla fatica e scarsa capacità di ipertrofia.
- Le fibre veloci o bianche, perché scarsamente vascolarizzate, dette anche FT (fast twitch fibers) o di tipo II. Hanno un diametro grande e sono povere di mitocondri e capillari. Sono maggiormente adatte a movimenti rapidi ed esplosivi e a tollerare lavoro muscolare di intensità elevata e di breve durata.
Sono adatte a un lavoro di tipo glicolitico e si contraggono e affaticano
rapidamente.
Le FT si dividono a loro volta in:
- Fibre di tipo IIA (o FTa), dette anche glicolitiche ossidative,
capaci di sostenere impegni di forza submassimale di elevata intensità.
- Fibre di tipo IIB (o FTb), glicolitiche per eccellenza e adatte a sforzi
massimali.
- Fibre di tipo IIC, fibre neutre che possono modificarsi in fibre
IIA o IIB a seconda dell’allenamento proposto.
Differenze tra età e sesso
Allo stesso modo di tutte le qualità fisiche, la forza muscolare evolve naturalmente con la crescita e la progressiva maturazione dell’organismo. Taeymans et al. (2009) evidenziano come lo sviluppo della forza abbia un andamento parallelo nei due sessi dai 6 ai 12 anni e presenti un incremento significativo dai 13 ai 16 anni nei maschi e dagli 11 ai 14 anni nelle femmine. Le differenze che si riscontrano sono determinate dall’influenza dell’attività ormonale (Becke et al. 2002). Nei soggetti di genere maschile si osserva un incremento più rapido della forza assoluta, a causa dell’aumento dei livelli di testosterone che promuove la plasticità muscolare, cioè l’incremento della sezione trasversa del muscolo. Eppure le differenze tra i sessi sono evidenti non solo in termini di forza massima, ma anche nei livelli di potenza prodotti (Komi et al. 1978). Sinaki et al. (2001) mettono in evidenza come lo sviluppo della forza sia diversificato nei due sessi con variazioni per ogni decade di età. Nella quarta decade (30-39 anni) le donne esprimono solo il 54% della forza espressa dagli uomini, differenza che culmina con valori pari al 70-76% rispettivamente nell’ottava (70-79 anni) e nona decade (80-89 anni).
DAL PROSSIMALE AL DISTALE: IL CONCETTO DI CORE
Monfort-Panego et al. (2009) evidenziano come l’importanza della muscolatura addominale, la sua funzione nella stabilità della colonna vertebrale e la prevenzione lombo-sacrale, siano elementi determinanti nella definizione del concetto di core.
Il core è stato descritto da Akuthota e Nadler (2004) come un cilindro con azione stabilizzatrice statico-dinamica della colonna vertebrale, sia in posizione ortostatica che assisa, e che utilizza la muscolatura del bacino come base d’appoggio. Stephenson e Swank (2004) hanno poi esteso il concetto di core region a tutti i muscoli tra le spalle e la pelvi che agiscono per il trasferimento di forze dal rachide alle estremità. Panjabi (1992) teorizza la presenza di un sistema di stabilizzazione della colonna vertebrale, suddivisibile a sua volta in tre sottosistemi:
- Il sistema passivo, formato da tutti i metameri vertebrali e le strutture osteo-artro-muscolari annesse, con capacità di supportare solo piccoli carichi.
- Il sistema attivo, formato da tutti i muscoli e i tendini, in grado di fornire le forze necessarie per il moto ma anche di garantire la stabilità della colonna vertebrale e di sostenere la massa corporea e i sovraccarichi verticali.
- Il sistema neurologico, che svolge un’azione di controllo dell’intero sistema di stabilizzazione della colonna vertebrale, riceve le informazioni dagli organi propriocettori ed esterocettori e determina le informazioni necessarie al sistema attivo modulando la tensione muscolare (inibizione reciproca), al fine di garantire la stabilità del soma.
Alla luce di questi sottosistemi Bergmark (1989) suddivide a sua volta il sistema attivo in due gruppi muscolari, uno definito globale e uno locale, sulla base della funzione principale dei vari muscoli della core region: il gruppo globale è composto dai muscoli più estesi e superficiali quali il retto addominale, gli obliqui interni ed esterni, il trasverso dell’addome, l’erettore spinale e la porzione laterale del quadrato dei lombi; il gruppo locale è invece composto dai muscoli più piccoli e profondi come il multifido, i rotatori, l’interspinale e l’intertrasversario. Le forze compressive di questi muscoli incrementano la pressione intraddominale dando maggiore stabilità alla zona lombare. Subentra quindi il concetto di core stability, un concetto dinamico di interazione tra diversi muscoli difficili da isolare ma allenabili nella loro globalità (Faries 2007).
Kibler et al. (2006) descrivono la core region capace di controllare la posizione del tronco rispetto alla regione pelvica e agli arti inferiori, al fine di permettere un controllo ottimale di forza e movimento ai segmenti distali coinvolti nell’attività a catena cinetica chiusa. Anderson e Behm (2005) sottolineano poi come una perdita di stabilità di tale regione contribuisca ad aumentare il dolore alla zona lombare, il cosiddetto low back pain.
Infine, si evidenzia come nelle attività sportive il core agisca da centro funzionale delle catene cinetiche che vi entrano in gioco. Kibler et al. (2006) ritengono infatti che un potenziamento del core nel trattamento nei disturbi muscolo-scheletrici della zona lombare costituisca un importante fattore per massimizzare la prestazione atletico-agonistica.
Se volete approfondire il tema del core, vi consigliamo la lettura di “Anatomia Core Stability”.
DAL CARICO ESTERNO AL CARICO INTERNO
Per carico esterno intendiamo l’insieme degli esercizi che mettono l’organismo in condizione di disequilibrio; in relazione a questo si ha una successiva fase di adattamento tramite indicazioni tecniche precise, espresse in tempi, ripetizioni o ripetute serie e ritmi esecutivi. A costituire invece il carico interno sono gli effetti determinati dal carico esterno, come l’adattamento in termini di muscolatura scheletrica, la frequenza cardiaca, l’apparato cardiovascolare, la matrice ossea, l’estensibilità muscolo tendinea e la determinazione emotivo-mentale. Possiamo dire dunque che il carico interno è la risposta immediata della struttura organica a un determinato carico esterno.
I RITMI CIRCADIANI E LA FATICA
Il termine ritmo circadiano (dall’espressione latina circa dies che significa “quasi un giorno”) è stato attribuito nel 1969 a Franz Halberg, considerato il fondatore della ricerca crono-biologica. Il ritmo circadiano individua un tempo compreso tra le 20 e le 28 ore, in genere 24±4, all’interno del quale si verificano notevoli variazioni di alcuni importanti parametri per l’omeostasi dell’individuo, e di conseguenza, anche della sua capacità di prestazione. La migliore funzionalità delle capacità fisiche dell’organismo umano viene collocata tra le 10.00 e le 13.00 e tra le 16.00 e le 19.00. Tra le variazioni fisiche più importanti di un ritmo circadiano alterato si evidenziano:
- Una variazione del consumo di ossigeno, con valori minimi alle 10.00 e valori massimi verso le 18.00.
2.Una fluttuazione della temperatura corporea di circa 0,5 C°, con valori minimi
alle 05.00 e un incremento verso le 16.00; un simile andamento si evince
nella frequenza cardiaca.
- Una variazione della pressione arteriosa, con valori più elevati nelle ore pomeridiane.
LA PRESCRIZIONE DELL’ESERCIZIO MOTORIO
Ripetizioni e serie
Qualsiasi protocollo di attività fisica adattata necessita di informazioni precise per la quantificazione dell’esercizio fisico proposto. A questo proposito è fondamentale l’indicazione di due parametri: la ripetizione e la serie dell’esercizio. La ripetizione è il singolo movimento che può eseguire un gruppo muscolare striato; per esempio flettere una volta l’avambraccio sul braccio equivale a una ripetizione, mentre fletterlo dieci volte equivale a dieci ripetizioni. La serie è l’insieme di più ripetizioni di un determinato movimento, inframmezzate da un tempo di recupero; per esempio eseguire tre volte un insieme di dieci ripetizioni significa realizzare tre serie da dieci ripetizioni l’una.
La quantità delle serie da stabilire viene stimata in relazione alle ripetizioni portate a compimento con una tolleranza di ±2, mentre la quantità delle ripetizioni è quantificata rispetto agli obiettivi mirati, i quali determinano l’efficacia del trattamento motorio.
Il capitolo su questa argomentazione continua dando delle indicazioni su una possibile prescrizione di un esercizio. Per saperne di più, leggete: Allenare le capacità motorie residue.